Operazione Teseo: storia del partigiano Riccioni, ultima scoperta di Necco

«Questo non è un libro di storia. Questa è la storia di un uomo che voleva salvare i suoi amici.» Così esordisce Luigi Necco, un’avvertenza per chi cercasse in questo libro (“Operazione Teseo” – 2014 – Tullio Pironti Editore) l’asettica descrizione di avvenimenti. Il testo è una narrazione appassionata, convulsa, con rapidi e improvvisi cambiamenti di scena, che riporta il clima di caos e smarrimento che consegue all’armistizio dell’8 settembre.

Il libro narra, ma la narrazione è storica, frutto di una ricerca durata dieci anni. Un lavoro lungo e instancabile, tipico dell’attività di Luigi Necco, giornalista del presente e del passato, anche quello più remoto (vedi ritrovamento del tesoro di Troia dato per perduto).

Un incontro fortunato

Nel 1984 Necco si trova a Creta per seguire gli scavi capeggiati da Louis Godart, segue la sua prima e mai sopita passione: l’archeologia. Sta tornando alla luce un insediamento distrutto da un incendio, probabilmente intorno al 1800 avanti Cristo. Ed è qui che avviene l’incontro che dà il via alla narrazione: «Dal mucchio muove un vecchio. Dritto e impettito (…). Fucile a tracolla, Anghelo Manolis avanza tra il rispetto della folla.»

Anghelo Manolis è un antarte, un partigiano greco, ed ha conquistato “il giornalista” per il suo portamento solenne come un wanax, l’antico re-sacerdote miceneo. Necco comprende che la sua intenzione di ricostruire, attraverso le testimonianze dirette dei cretesi, i rapporti tra l’Italia e l’isola è lì a portata di mano.

E Manolis racconta, racconta che, con il suo gruppo di partigiani, dopo aver catturato un intero plotone di tedeschi destinati ad essere soppressi, risparmiò un prigioniero italiano dall’esecuzione immediata solo perché «c’è un altro italiano che sta con noi e combatte senza paura». Nessuno ne conosceva il vero nome, si faceva chiamare Georgos Sfendilakis.

Georgos Sfendilakis è il sottotenente Siro Riccioni.

La storia di quel che avvenne a Creta dopo l’8 settembre ci regala un ulteriore tassello di quel tormentato periodo. Cosa potevano fare gli italiani dopo un proclama di questo genere?

Dal mucchio muove un vecchio. Dritto e impettito. Fucile a tracolla, Anghelo Manolis avanza tra il rispetto della folla

«Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.»

Chi erano i nemici? Tutti.

Una scelta di libertà

I Greci, che volevano vendicarsi dell’aggressione subita, i tedeschi che non avevano altro obiettivo che neutralizzare e schiavizzare i traditori, gli inglesi che non si fidavano degli italiani e quindi avevano deciso di non aiutarli.

Siro Riccioni sceglie, sceglie la libertà, diventa consapevole che è giunto il momento di combattere il nazismo, la sua è una scelta di campo dettata da valori, non è calcolo utilitaristico di eventuali (improbabili) benefici immediati.

Riccioni sceglie e sceglie subito, non consegnando ai tedeschi un deposito di munizioni. Da lì parte la sua battaglia, le sue fughe attraverso montagne, gole, impervi sentieri, soffrendo il freddo e la fame fino ad arrivare ad un passo dalla morte.

La ferocia dei nazisti non si ferma, il cinismo degli inglesi non ha limiti. I tedeschi imbarcano sul mercantile Sinfre più di 2.500 italiani, gli “ex capitolati”, cioè quelli che non volevano né combattere e neppure collaborare con i tedeschi, sono destinati ad essere deportati chissà dove. Ammassati come bestie nella stiva, sorvegliati dai nazisti, la nave salpa ma un siluro inglese la colpisce, gli italiani tentano di salire in coperta ma vengono respinti dai mitra tedeschi. La nave affonda rapidamente, muoiono 1.850 italiani.

Siro Riccioni (il secondo partendo da sinistra)

Gli inglesi non conoscevano il carico della nave? Dovevano essere soppresse le eventuali braccia lavorative a servizio del nemico? Questa è la guerra, questo è ciò che è accaduto dopo l’8 settembre, a Creta come altrove. Il tragico episodio spinge ancor di più Riccioni all’azione, unico è l’imperativo: salvare la vita ai suoi commilitoni.

La narrazione si svolge in un arco temporale che parte dalla caduta di Mussolini fino all’aprile del 1945.

In questo arco di tempo Riccioni si conquista il rispetto dei partigiani greci, per loro è il capetan. Ma proprio mentre i cretesi stanno riprendendo possesso dell’isola, si scatena l’istinto di vendetta nei confronti degli italiani, Siro Riccioni sfugge ad un altro attentato.

Il blitz contro i tedeschi

È il primo aprile del 1945 quando Riccioni viene a conoscenza della decisione dei tedeschi di uccidere più di trecento italiani, per lo più gente malata che non vuole schierarsi con loro. Siro, con pochi uomini, tra cui Anghelo Manolis, tende un agguato al plotone che si accingeva a sterminare i prigionieri aprendo il fuoco pochi attimi prima dell’esecuzione. Salvi 272 italiani.

Il 1 aprile 1945, siro viene a conoscenza della decisione dei tedeschi di uccidere più di 300 italiani, considerati traditori. con pochi uomini, tende un agguato al plotone d’esecuzione e ne salva 272

Nella motivazione alla medaglia d’argento al valore militare si legge: «Mentre i nostri fratelli già allineati al muro ascoltavano impavidi, l’iniqua condanna, con epico slancio, alla testa di pochi valorosi offertisi volontari per l’audace impresa, piombava sul plotone d’esecuzione, che si apprestava ad eseguire l’orrendo massacro e con lancio di bombe a mano e raffiche di mitraglia lo sbaragliava, ridonando alla vita ed alla patria i morituri figli d’Italia. Figura degna delle sublimi tradizioni dell’eroismo italiano.» 

Siro ritorna in patria, prende una seconda laurea, ridiventa tenente e poi capitano nel 1951. Muore nel 1956 durante un’esercitazione militare in montagna con i suoi alpini, un masso si stacca da una cresta e gli piomba sul capo: il luogo si chiama Creta delle Cianevate.